FASSINA CORR I 20-02-2007 9:49 Pagina 261 FASSINA CORR I 20-02-2007 9:49 Pagina 261 Incontri triestini di filologia classica 5 (2005-2006), 261-272
ALESSIA FASSINA (e-mail:ale.fassina@libero.it)
Alterazioni semantiche ed espedienti compositivi nel Cento Probae
Dell’intera produzione centonaria d’intonazione cristiana pervenutaci dall’antichità1 il cosiddetto Cento Probae rappresenta il più importante ed antico testimone, l’unico di cui si possa risalire con sicurezza all’autore. Nonostante autorevoli studiosi ne abbiano messo in discussione l’identità2, tutt’oggi l’ipotesi più accreditata attribuisce la genesi dell’opera a Faltonia Betitia Proba, un’esponente di spicco dell’illustre gens dei Petronii Probi, imparentatasi con gli Anicii attraverso il matrimonio di suo figlio Quinto Clodio Hermogeniano Olybrio con Tyrrania Anicia Iuliana3.
‘Pagana’ nella forma, che rimanda sempre all’illustre modello virgiliano, ma cristiana nell’ispirazione e nell’afflato poetico, questa matrona romana nella seconda metà del IV sec. ridusse in poesia parti dell’Antico e del Nuovo Testamento servendosi esclusivamente dei versi del poeta mantovano, rivestendo, così, un ruolo fondamentale nel processo di cristianizzazione di Virgilio4, la cui legittimazione ideologica era già iniziata nell’età costantinia
1 Trattasi del Cento Probae, del De Verbi Incarnatione (AL 719 R2), dei Versus ad gratiam Domini (AL 719a R2) e del De Ecclesia (AL 16 R2), pubblicati da Karl Schenkl nel sedicesimo volume del Corpus Vindobonense (1888, 513-627), prima ed unica edizione della poesia centonaria cristiana. Questi testi, ad eccezione del solo Cento Probae, sono riportati anche in tutte le principali edizioni a stampa dell’Anthologia Latina all’infuori di quella del 1982 curata da Shackleton Bailey che, per spiegare la sua scelta di omettere la pubblicazione dei centoni, parla addirittura di opprobria litterarum.
2 Danuta Shanzer 1986, 232-240; 1994, 75-96 ha ipotizzato che la reale autrice del centone non sia Faltonia Betitia Proba ma sua nipote Anicia Faltonia Proba in base ad alcune coincidenze verbali tra il testo ed il cosiddetto Carmen contra Paganos (AL 4 R2), e alla luce di varie incongruenze emerse, a suo giudizio, dal confronto fra le varie adscriptiones presenti nei manoscritti medievali riportanti il testo. La sua tesi è stata smentita sia da Green 1995, 552, che da Matthews 1992, 285, che, prendendo in considerazione i diversi problemi prosopografici e di tradizione manoscritta legati al centone, hanno dimostrato la genuinità di tutte le informazioni riportate dai codici.
3 La poetessa era figlia di Petronio Probiano (console nel 322 con Anicio Giuliano, PVR nel 32931) e forse di Demetriade (Hier. epist. 130,3 qui Demetriadis proauiae nobilitatem insigniorem reddidit Demetriadis filiae perpetua castitate); dal marito Clodio Celsino Adelfio (presumibilmente correttore di Apulia e Calabria prima del 333, forse proconsole di una provincia a noi non nota prima del 351; PVR nel 351) ebbe due figli, Quinto Clodio Hermogeniano Olybrio (prefetto del pretorio d’Oriente nel 378; console nel 379) e Faltonio Probo Alypio (PVR nel 391): cfr. PLRE I 732.
4 Sul tentativo di cristianizzazione delle opere di Virgilio, in particolare della quarta ecloga, cfr. Schmid 1953; Courcelle 1957; Monteleone 1975; Fontaine 1978.
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na in Oriente con la traduzione della IV ecloga curata dallo stesso imperatore, in Occidente con la conuersio epica delle Scritture attuata negli Euangeliorum libri quattuor dallo spagnolo Giovenco.
L’importanza del cento Probae nell’ambito della poesia del IV sec. risiede infatti nella voluta interconnessione che la poetessa riuscì a creare tra i pia munera Christi, come vengono definite al v. 23 le verità di fede, e la grande tradizione classica incarnata dalla lingua virgiliana. Sottesa alla continua ripetizione di formule del modello si celava una precisa strategia culturale volta a creare, attraverso la risemantizzazione del modello, una lingua epica cristiana che potesse diventare il veicolo della nuova realtà spirituale; pertanto lo scopo del- l’opera risiedeva nel duplice obiettivo di trasmettere la parola divina ad un’élite cristiana imbevuta di letteratura profana5 e di suggerire, al contempo, una rilettura cristiana delle opere virgiliane, il cui latente valore spirituale sembrava emergere proprio attraverso il loro impiego nel nuovo contesto sacro.
A questo proposito, risulta interessante mettere concretamente in luce come Proba riesca a conciliare la lingua di Virgilio con le esigenze della nuova fede, facendo assumere ai termini del modello, nati da un’ispirazione completamente diversa, un valore semantico nuovo, in modo da riuscire ad imporre il messaggio cristiano sulla lingua virgiliana, che tuttavia non si riduce in pure e semplici clausole ‘musicali’, ma conserva il suo carattere allusivo, a tal punto che gli sforzi impiegati per la riorganizzazione e il riuso dei membra disiecta del modello nel nuovo contesto consentono di poter parlare, dell’«existence d’un accord latent entre le deux théologies, paienne et chrétienne»6, come nel caso degli autori di parafrasi bibliche.
5 All’inizio il messaggio cristiano venne accolto dai ceti più bassi della popolazione e affidato a semplici traduzioni dei testi biblici dal greco, aderentissimi agli originali, ma troppo spesso farciti di vistosi errori morfologici e sintattici. Quando la nuova religione si diffuse nelle classi più alte, questi umili testi diventarono un ostacolo per la diffusione del credo, come ci testimonia lo stesso Lattanzio: inst. V 1,15 haec in primis causa est cur apud sapientes et doctos et principes huius speculi scriptura sancta fide careat, quod prophetae communi ac simplici sermone ut ad populum sunt locuti. Uomini colti educati nelle scuole di retorica, abituati a leggere autori come Plauto, Terenzio e Cicerone, mal sopportavano di accostarsi alle Scritture su testi così scorretti: basti ricordare l’atteggiamento del giovane Girolamo che, dopo aver letto Plauto, non riusciva a dedicarsi alla lettura dei profeti ebrei (epist. 22,30), ed il caso del difficile approccio alle Scritture dello stesso Agostino, troppo imbevuto dell’Hortensius ciceroniano. Si cercò di provvedere a questa povertà dell’eloquio cristiano con molteplici soluzioni: a partire dagli anni sessanta del IV sec. si diede inizio ad una vera e propria attività esegetica sistematica che comportò uno stretto contatto con la tradizione di matrice greca: Ilario di Poitiers con il suo In Matthaeum ed il Tractatus super Psalmos fu il precursore della grande fioritura dell’esegesi latina che durerà un cinquantennio, e che vedrà in Ambrogio, Girolamo e Agostino i suoi massimi rappresentanti.
6 Mora-Lebrun 1994, 76.
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Paradigmatici in questo senso sono i vv. 346-349 in cui la descrizione del mistero dell’incarnazione di Cristo sembra sostenere la posizione ufficiale della Chiesa che nel concilio di Nicea aveva sancito definitivamente il dogma sull’unità inscindibile di Dio, Uno e Trino:
Iamque aderat promissa dies, quo tempore primum extulit os sacrum diuinae stirpis origo missus in imperium, uenitque in corpore uirtus mixta deo: subiit cari genitoris imago.
A brevissima distanza dal proemio al mezzo dell’opera, in cui invoca nuovamente l’assistenza divina prima d’intraprendere la narrazione delle vicende del Nuovo Testamento, l’autrice descrive al v. 346 l’avvicinarsi del giorno della nascita di Cristo attraverso la fusione intorno a cesura eftemimere di Aen. IX 107 Ergo aderat promissa dies [et tempora Parcae] (trattasi dello scioglimento della promessa di Giove a Cibele di trasformare in Nereidi le navi di Enea) e di georg. I 61 [imposuit natura locis,] quo tempore primum (riferito al momento in cui Deucalione creò i primi uomini), mutuando iamque in incipit di verso da Aen. XII 391 iamque aderat [Phoebo ante alios dilectus Iapyx] (il medico Iapige giunge al capezzale di Enea), in quanto luogo affine ad Aen. IX 107 in virtù della voce comune aderat7 .
In quest’occasione viene ‘coniato’ un nuovo significato per l’espressione virgiliana promissa dies, che arriva a designare l’avvento di Cristo, come dimostra l’uso che ne fa alcuni anni dopo Prudenzio nella sua Apotheosis in difesa della Trinità, quando ai vv. 601-604 richiama un passo di Isaia in cui si profetizza la nascita virginale di Gesù (7,14 ecce uirgo concipiet et pariet filium et uocabitis nomen eius Emmanuel), servendosi della medesima formula8:
Aduenit promissa dies, quam dixerat iste affore uersiculus, cum uirgo puerpera teste haud dubie sponso, pacti cui cura pudoris, edidit Emmanuelque meum me cernere fecit.
7 Fu Rosa Lamacchia 1958, 212 ad evidenziare per la prima volta, a proposito della Medea di Hosidio Geta, l’utilizzo dell’espediente compositivo della sutura intorno ad una uox communis, osservando che spesso l’autore «unisce insieme due emistichi che hanno la parola d’attacco in comune: quasi che questo gli desse maggior garanzia per l’unione delle formule fra loro». La questione venne affrontata dalla studiosa anche nella prefazione della sua edizione critica della Medea (1981, VI): «centonarius… haud raro singula membra aliquo ipsorum communi uerbo tamquam articulo connexuit, quo artificio fretus emendatiores elegantioresue uersus se consarcinauisse arbitratus est». In seguito Maddalena Vallozza 1984, 309-342 ha cercato di mettere in luce la presenza di questo fenomeno anche in tutti gli altri centoni tràditi dal codex Salmasianus, mentre Paola Paolucci, per analogia col fenomeno della uox communis, ha coniato nella sua edizione del centone Hippodamia (2006, LXXIII) la definizione di «sutura innescata da vox propinqua» per l’espediente compositivo presente in quegli emistichi «che condividono non tanto la parola coinvolta dalla sutura bensì una parola vicino ad essa».
8 Sulle posizioni teologiche anti-ariane sostenute da Prudenzio nell’Aphoteosis, cfr. Garuti 2005; Micaelli 1984.
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Il v. 347 presenta un procedimento combinatorio del tutto analogo al precedente: l’immagine del volto di Cristo in incipit di verso coincide con quella della stella Lucifero in Aen. VIII 591 extulit os sacrum [caelo tenebrasque resoluit], mentre l’espressione diuinae stirpis origo dipende da Aen. XII 166 [hinc pater Aeneas,] Romanae stirpis origo, dove il termine Romanae viene sostituito da diuinae, mutuato da Aen. V711 [est tibi Dardanius] diuinae stirpis Acestes in virtù del termine comune stirpis.
Una notevole capacità creativa permette, inoltre, a Proba di condensare la sua ortodossia cristologica nei soli vv. 348-349, dal punto di vista teologico i più importanti di tutta l’opera, che, come ha evidenziato la Cacioli, «vanno esaminati insieme, perché esprimono uno stesso concetto: e cioè l’umanarsi di Cristo, figlio di Dio»9.
Al v. 348 l’ascesa al trono di Roma di Numa Pompilio di Aen. VI 812 (missus in imperium [magnum. quoi deinde subibit]) si fonde intorno a cesura pentemimere con la descrizione del valore e della bellezza di Eurialo di Aen. V 344 ([gratior et pulchro] ueniens in corpore uirtus), con variazione di ueniens in uenitque suggerita dal nuovo contesto), mentre il
v. 349, legato in enjambement col precedente, sutura il momento del concepimento di Aventino da parte della vestale Rea di Aen. VII 661 (mixta deo [mulier, postquam Laurentia uictor]) con la descrizione che Enea fa del padre Anchise in Aen. II 560 ([obstipui;] subiit cari genitoris imago). Diversi sono i mutamenti semantici operati sul modello: mentre nel passo virgiliano per uirtus s’intendeva il valore militare di Eurialo, in chiave cristiana il termine arriva ad includere in sé le prerogative della uis divina; nel centone la uirtus mixta deo indica, pertanto, «la potenza mista alla divinità, che si sprigiona, cioè, da Dio»10, un concetto già espresso nei Vangeli dove Cristo è detto testualmente sedentem ad dexteram uirtutis (Matt. 26,64); analogamente il termine imago non si riferisce ad un ricordo della memoria11 come è l’immagine del vecchio padre Anchise per Enea, bensì a Cristo, immagine sostanziale del Padre.
Il concetto dell’umanarsi di Cristo, figlio di Dio, è, dunque, totalmente racchiuso nell’espressione uirtus mixta deo, ovvero nella potenza che si sprigiona da Dio al momento dell’incarnazione del suo Verbo in corpo umano, mentre il suo essere immagine sostanziale del Padre viene estrinsecato attraverso la definizione di cari genitoris imago, che equivale ad imago Dei, espressione già presente nelle Scritture, nella seconda lettera di San Paolo ai Corinzi (Cor. 2,4 ut non fulgeat inluminatio euangelii gloriae Christi, qui est imago Dei)e in quella ai Filippesi (Phil. 2,6 qui [sc. Christus] cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo), ed è ampiamente attestata negli autori cristiani, sempre in riferimento alla natura di Cristo, specie in opere antiariane: Prud. apoth. 309 Christus forma
9 Cacioli 1969, 221-222. 10 Cacioli 1969, 222. 11 Cfr. ThLL VII 409, 24ss.
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patris, nos Christi forma et imago; Novatian. trin. 18,947B Sic ergo et Christus, id est imago Dei et filius Dei, ab hominibus inspicitur, qua poterat uideri; Mar. Victorin. adu. Arium I 19 Quod Christus de Deo, non ex his quae non sunt: ut non splenderet illis inluminatio euangelii gloriae Christi qui est imago Dei. Si imago Dei Christus, de Deo Christus. Imago enim imaginalis imago; imaginalis autem Deus, imago ergo Christus; in Eph. I4 Namque filius Christus et uere filius Christus, et uere filius, sicuti saepe docui, cum imago Dei est; Ambr. in psalm. XXXVIII 24,1 In qua ergo imagine ambulat homo? In ea utique ambulat ad cuius similitudinem factus est, id est ad imaginem Dei; imago autem Dei Christus, qui est splendor gloriae et imago substantiae eius; in Luc. X 49 solus enim Christus est plena imago Dei propter expressam in se paternae claritudinis unitatem; c. Aux. 32 Sed in ecclesia unam imaginem noui hoc est imaginem Dei inuisibilis de qua dixit Deus: Faciamus hominem ad imaginem et similitudinem nostram; illam imaginem de qua scriptum est quia Christus splendor gloriae et imago substantiae eius.
Già nei versi iniziali del centone, nella praefatio operis, Proba aveva posto l’accento sul mistero trinitario, chiamando in causa, di volta in volta, le tre Persone di Dio.
Esplicito l’accenno allo Spirito Santo ‘settiforme’ ai vv. 9-12
nunc, deus omnipotens, sacrum, precor, accipe carmen aeternique tui septemplicis ora resolue spiritus atque mei resera penetralia cordis
dove l’aggettivo septemplex12 presenta uno slittamento semantico in chiave teologica analogo a Ps.Tert. adu. Marc. IV 128 In cuius tenebris septemplex spiritus unus, basato su un passo del profeta Isaia (11,2 ) in cui si enumerano i diversi modi in cui si manifesta lo Spirito Santo al fedele.
Ai vv. 29-32
O pater, o hominum rerumque aeterna potestas, da facilem cursum atque animis illabere nostris, tuque ades inceptumque una decurre laborem, nate, patris summi uigor et caelestis origo
12 Questo aggettivo, derivato da septem e plico e significante septies duplicatus, septem plicaturas habens (Forcell. IV 320 s.v.), ricorre per la prima volta in Aen. XII 925 loricae et clipei extremos septemplicis orbis in riferimento allo scudo di Turno composto da sette pelli di bue sovrapposte (poi in Ou. am. I7 Quid? non et clipei dominus septemplicis Aiax; met. XIII 2 surgit ad hos clipei dominus septemplicis Aiax; Homer. 293 texisset lorica uiri septemplice tergo; 612 ingentem clipeo septemplice reppulit ictum; Stat. Theb. VII 310 Hypsea quadriiugos, clipei septemplice tauro; Val. Fl. VI 367 ille iterum in clipei septemplicis improbus orbem). Il modello è senza dubbio Hom. Il. VI 220-22 che chiama eJptaboveion savko" lo scudo di Aiace, sebbene il termine greco, contenendo in sé l’elemento linguistico relativo alle pelli bovine, non corrisponde esattamente all’aggettivo latino che risulta essere più astratto.
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vengono, invece, distinte nettamente la persona del Padre, di cui si sottolinea al v. 29 la potentia attraverso un verso dell’obsecratio di Venere a Giove (Aen. X 18), da quella del Figlio, la cui natura divina, esplicitata al v. 32 attraverso la sutura della preghiera di Venere a Cupido di Aen. I 665 e di un esametro della cosmogonia di Anchise (Aen. VI 730), sembra risultare più chiara se non si accetta la punteggiatura adottata nel Corpus Vindobonense da Schenkl sulla scorta del modello virgiliano13, e si pone una virgola non dopo nate ma dopo summi14: Cristo viene così definito nate patris summi ‘Figlio del Sommo Padre’ e caelestis origo per sottolinearne la natura divina, quindi uigor, termine con cui Proba evoca Cristo nella sua raffigurazione di Logos come forza creativa di Dio, ribadendo il principio evangelico secondo cui il Padre crea tutte le cose attraverso il Figlio: Ioh. 1,3 omnia per ipsum [sc. Verbum] facta sunt, et sine ipso factum est nihil, quod factum est.
Analogamente Mario Vittorino negli stessi anni aveva difeso l’umanità e la divinità di Cristo contro l’Arianesimo introducendo la medesima distinzione tra potentia e actio per caratterizzare le figure del Padre e del Figlio (adu. Arium. I 19 e II 3):
Et quare imago Dei lovgo"? Quoniam deus in occulto, in potentia enim; lovgo" autem in manifesto, actio enim. Quae actio, habens omnia quae sunt in potentia, uita et cognoscentia, secundum motum producit, et manifesta omnia. Propter quod omnium quae sunt in potentia imago est actio, unicuique eorum quae in potentia sunt speciem perficiens, et exsistens per semet: a nihilo enim nulla substantia. […] Secundum autem quod est potentia et actione, potentia Pater, actione Filius.
Ergo et Pater in Filio et Filius in patre, sed utrumque in singulis, et idcirco unum; duo autem, quia quo magis est id alterum apparet; magis autem Pater potentia et actio Filius, et idcirco alter, quia magis actio; magis enim actio, quia foris actio.
13 Come già sottolineato dalla Cacioli 1969, 191, il verso presenta un problema interpretativo legato «all’evidente forzatura brachilogica» causata dal vocativo nate che perde il suo valore affettivo passando dalla bocca di Venere a quella dell’autrice. Brugnoli 1987, 218-19 non accoglie l’interpunzione dopo nate proposta da Schenkl, ma suggerisce di ripristinare la lezione del verso già accolta nell’edizione di Proba nella Collectio omnium poetarum (Pisauri 1766), e riprodotta anche in PL XIX 803-18, che pone l’interpunzione del verso all’altezza della cesura tra l’hemiepes e l’enoplio, portando, così, all’eliminazione della brachilogia. Secondo lo studioso, intendendo uigor ed origo in endiadi e caelestis in enallage si avrebbe un’espressione di maggior rigore teologico, che troverebbe appoggio anche al v. 347 dove Cristo è detto diuinae stirpis origo.
14 Il fatto che Ausonio riprenda alla lettera l’emistichio del centone in ephem. 3,27-30 Nate patris summi nostroque salutifer aeuo / uirtutes patrias genitor cui tradidit omnes, / nil ex inuidia retinens plenusque datorum, / pande uiam precibus patriasque haec perfer ad aures dimostra che il verso va punteggiato e inteso in questo modo e conferma anche che, al momento di comporre l’Oratio, il poeta conosceva il poemetto; in alternativa si dovrebbe pensare che abbia reinterpretato allo stesso modo, ma indipendentemente da Proba, la sintassi di Aen. I 665: coincidenza non impossibile ma piuttosto improbabile.
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Se l’analisi di questi versi ha permesso di rendere più chiari alcuni aspetti della dottrina trinitaria di Proba, per evidenziare ancor meglio la sua abilità nel riuscire a fondere assieme, tra le possibili tessere virgiliane, quelle che meglio si adattavano a creare un testo ideologicamente ‘nuovo’ è utile istituire un confronto tra la sua tecnica compositiva15 e quella di un altro centonarius nella resa del medesimo episodio biblico.
15 Nell’epistola proemiale al suo Cento Nuptialis, indirizzata ad Assio Paolo, Ausonio elenca le regole tecniche alla base della realizzazione di un centone: Et si pateris ut doceam docendum ipse, cento quid sit absoluam. uariis de locis sensibusque quaedam carminis structura solidatur, in unum uersum ut coeant aut caesi duo aut unus <et unus> sequenti cum medio, nam duos iunctim locare ineptum est et tres una serie merae nugae. Diffinduntur autem per caesuras omnes, quas recipit uersus heroicus, conuenire ut possit aut penthemimeris cum reliquo anapaestico aut trochaice cum posteriore segmento aut septem semipedes cum anapaestico chorico aut *** post dactylum atque semipedem quidquid restat hexametro… (160,24-32 Prete).
Il cento Probae può considerarsi un buon esempio di tecnica centonaria dal momento che solo in pochissimi casi la sua autrice contravviene ai rigidi dettami ausoniani: bassissima è infatti la percentuale di reimpiego di due versi consecutivi del modello (vv. 40-41 = Aen. VI 728-29; 73-74 = georg. I 35251; 84-85 = ecl. VI 35-36; 215-216 = Aen. X 572-73; 411-412 = georg. I 41-42; 485-486 = Aen. VI 55758; 533-34 = georg. I 141-42); limitato il ricorso a versi paruis ex frustulis consociati: v. 36 Musaeum ante omnes (Aen. VI 66) uestrum cecinisse (ecl. X 70) per orbem (ecl. VIII 9; georg. I 505; Aen. I 457; I 602; X 783; XI 257; XI 694); v. 129 eripuit (Aen. V 464; VI 342; VII 119; XII 539) subitoque (Aen. VIII 637; XII 421) oritur mirabile donum (Aen. II 680 + I 652); v. 371 corpora natorum (Aen. II 214; VI 22) sternuntur (Aen. II 364) limine primo (Aen. VI 427); v. 564 matres atque uri (georg. IV 475; Aen. VI 306), pueri (georg. IV 476; Aen. VI 307) uelamina nota (Aen. VI 221); v. 588 edocet (Aen. X 152) immiscetque preces (Aen. X 153) ac talia fatur (Aen. III 485; al.); v. 609 exposcunt (Aen. IX 193) farique iubent (Aen. XI 240), quo sanguine cretus (Aen. II 74; III 608); v. 651 cum subito (Aen. I 509; I 535; III 590 ) ante oculos (Aen. I 114) ingenti mole sepulchrum (Aen. VI 232). Pochissime le infrazioni apportate ai versi virgiliani, che si risolvono in semplici trasformazioni di un caso o di una concordanza, mutamenti di modo o tempo o persona verbale, sostituzione, trasposizione o soppressione di un vocabolo; dodici i uerba omissa (v. 115 uix; haec; 205. -que; 286 -que; 315 fateor; nauis; 318 -que; 456 pauidam; 479 est; 489 primum; 490 duro; 602 -que); quattro gli addita (v. 115 talia; 157 pater; 205 atque; 609 que); solo sei volte si ricorre a uerba traslata (v. 106 liquidi gregibus . gregibus liquidi; 205 subitaque animum . animum subita; 265 nescis heu perdita . heu perdita nescis; 368 magnisque . et magnis; 586 fruges manibus . manibus fruges; 602 patribus populoque . populo patribus). Viceversa la fluidità del testo è garantita dalla totale mancanza di aggiunte originali o di autori diversi da Virgilio e dal- l’alto numero di uoces communes (v. 27 quantum; 30 atque; 57 lunae/-am; 114 iuuat; 126 noctis; 128 compagibus; 129 mirabile; 131 facie/-es; 155 nec; 161 ubi; 163 hic; uer 170 si; 174 uolumina; 182 dictis; 199 -que; dapes; 210 hominum; 214 numine; 220 cum; auris; 221 -que; per; 223 dictis; ultro; 240 morte; 243 qua/quod; 267 morere; 297 et; 307 alto; 323 et; 328 quibus; 338 caeli/caelo; 346 aderat; 347 stirpis; 357 clamore; 358 acuunt; iras; 383 populosque; 404 decus; 405 accipe; 445 si modo; quem/quod; 446 pectore; 454 et; 476 hinc; 505 super; 528 dixerat; 551 clamore; 605 magno clamore; 614 cunctique/cunctisque; 630 et; 639 corde; 648 medio/media; 654 compagibus; 665 uri; 681 et).
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A questo proposito interessante è il paragone tra i suoi versi dedicati agli inizi della Creazione e quelli del centone intitolato Versus ad gratiam Domini (AL 719a R2)16:
Proba, cento 56-61 AL 719a 88-94 R2
Principio caelum ac terras camposque liquentes Nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra
lucentemque globum lunae solisque labores siderea polus, et nox obscura tenebat.
ipse pater statuit, uos, o clarissima mundi 90 Tum pater omnipotens, rebus iam luce retectis,
lumina, labentem caelo quae ducitis annum. aera dimouit tenebrosum et dispulit umbras. 60 nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aether, Principio caelum et terras solemque cadentem set nox atra polum bigis subuecta tenebat, lucentemque globum lunae camposque liquentes, noctis iter, stellis numeros et nomina fecit,
Entrambi gli autori pongono l’accento su una questione ancora piuttosto dibattuta nella seconda metà del IV secolo, la cosiddetta creatio ex nihilo17: la collocazione incipitaria del- l’avverbio principio, rispettivamente al v. 56 e al v. 92, suggerisce in maniera inequivocabile che l’intero universo s’innesta nel processo creativo ex nihilo, cioè in quell’‘attimo atemporale’ che è il ‘principio’ di ogni entità creata, compreso il tempo. Ambedue puntualizzano, inoltre, che è l’atto divino (statuit; fecit) che fa scaturire tutto l’universo, e nulla vi era prima se non il buio primordiale, ma, pur attingendo quasi sempre ai medesimi luoghi virgiliani, dimostrano la propria originalità nel modo in cui scelgono di fondere insieme i diversi passi del modello.
Se si confrontano, ad esempio, Proba 56-57 e AL 719a 92-93 R2 si può notare che la poetessa per evidenziare che è l’azione creatrice di Dio che dà origine al mondo intero inizial
16 Tràdito dal solo Vat. Pal. Lat. 1753 immediatamente dopo il cento Probae, questo poemetto di 132 esametri, lacunoso della fine, viene tradizionalmente considerato insieme al De mortibus boum di Endelechio il primo esempio di bucolica cristiana. Fu Bursian 1878, 29-37, primo editore del testo, ad ipotizzare la sua identificazione nel Tityrus di Pomponius citato da Isidoro in orig. I 39,26 Sic quoque et quidam Pomponius ex eodem poeta inter cetera stili sui otia Tityrum in Christi honorem conposuit: similiter et de Aeneidos. Si sono occupati di questo testo sotto diversi aspetti Schmid 1953, 155, che propone come datazione del centone il V sec.; Ricci 1977a, 495-96; 1977b, 105-21; Vidal 1983; McGill 2001.
17 La concezione della creatio ex nihilo fu il risultato dello scontro tra la dottrina cosmogonica cristiana e il dualismo gnostico. Sebbene si trovasse espressa solo in Mach. II 7,28 e non fosse esposta letteralmente in Gen. I 1, i Padri della Chiesa ritennero che fosse deducibile dalla logica stessa del discorso biblico, e posero le fondamenta di questa concezione minimizzando il riferimento al caos esistente prima della creazione, in quanto il rifiuto dello gnosticismo esigeva che si togliesse alla materia la sua preesistenza dualistica e che la si includesse nell’unità della creazione dal nulla. Ritennero che il concetto della creatio ex nihilo non significasse che il nulla era l’elemento base da cui Dio ha formato il mondo, ma indicasse l’assenza di qualsiasi concausa extradivina, in quanto l’ordine universale era attribuibile esclusivamente all’onnipotenza della divina volontà d’amore. Di conseguenza valorizzavano non ciò che preesisteva all’azione divina, ma il fatto che la forma della creazione non sarebbe stata determinata da nient’altro che dall’opera pienamente libera di Dio.
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mente seleziona due versi della cosmogonia di Anchise (Aen. VI 724-25 Principio caelum ac terras camposque liquentis / lucentemque globum lunae [Titaniaque astra]), quindi riprende la perifrasi solisque labores da Aen. I 742 [Hic canit errantem lunam] solisque labores, ovvero da uno dei temi cantati da Iopa durante il banchetto offerto da Didone, scelta molto felice in quanto il passo sul piano contenutistico risulta essere, anch’esso, in piccolo, una cosmogonia; la tecnica compositiva si rivela impeccabile dal momento che, dopo aver riprodotto fino alla cesura eftemimere del v. 57 un verso e mezzo del modello, cerca di ovviare alla sensazione di frammentarietà del testo realizzando la sutura dei due emistichi lucentemque globum lunae e lunam solisque labores attraverso la voce comune luna.
L’autore di AL 719a, invece, per ribadire il concetto della creatio ex nihilo, pur trovando ovvio attingere al medesimo passo del libro VI dell’Eneide, ricorre ad un diverso espediente compositivo: divide in due emistichi Aen. VI 724, quindi disloca il secondo colon camposque liquentes al v. 93, ottenendo così un ordine degli elementi invertito rispetto a Proba; fa poi dipendere l’accenno al sole da un passo dell’Eneide meno evocativo di quello desunto dal canto di Iopa, e cioè dalla collocazione geografica dell’Etiopia di Aen. IV 480 Oceani finem iuxta solemque cadentem.
Se si raffrontano Proba 60-61 e AL 719a 88-89 R2 emerge la maggior abilità compositiva della poetessa che attinge a due passi dell’Eneide che descrivono notti particolarmente cupe, gravide di tensione, vale a dire Aen. III 585 nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra (cielo notturno sopra l’Etna in eruzione) ed Aen. V 721 et Nox atra polum bigis subuecta tenebat (è la notte in cui Enea è preso dall’inquietudine, perché incerto se restare in Sicilia o raggiungere le sponde dell’Italia) dove modifica aethra in aether e set in et come richiesto dalla sintassi del nuovo contesto; nei Versus ad gratiam Domini entrambi gli esametri vengono, invece, desunti dallo stesso passo del libro III assunto da Proba limitatamente al v. 60: Aen. III 585-587
nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra siderea polus, obscuro sed nubila caelo, et lunam in nimbo nox intempesta tenebat
Infatti, a dispetto dell’opinione che vorrebbe suturato nel secondo emistichio di v. 89 Aen. IV 461 uisa uiri, nox cum terras obscura teneret (ma a prezzo di ben due uerba omissa, cioè cum e terras, e di un cambiamento di modo verbale)18, è verisimile che il centonarius, dopo aver fatto ricorso ad un verso e mezzo del modello, richiami Aen. III 587, sostituendo intempesta con obscura, derivato da obscuro… caelo del verso precedente. Il v. 89 rimane, comunque, un esempio piuttosto esaustivo della scarsa chiarezza compositiva tradizionalmente imputata a questo centone: il riutilizzo del modello virgiliano si dimostra poco
18 Così per Schenkl 1888, 613; Ricci 1977b, 117; Palla 1983, 285.
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felice sotto il profilo sintattico, implicando la creazione di un evidente caso di ellissi dell’oggetto con un conseguente adattamento del verbo tenere in senso intransitivo19. Gli aggiustamenti operati sul testo virgiliano comportano, inoltre, un allungamento di sillaba finale breve in arsi (dovendosi leggere pOlUs), causato dalla giustapposizione di due emistichi non complementari per difetto20.
Crediamo che questo breve confronto tra le diverse tecniche compositive adottate nei due centoni sia sufficiente a far emergere «il tentativo piuttosto rozzo di emulazione nei confronti di Proba»21 operato dall’autore dei Versus ad gratiam Domini, che non sembra essere in grado di eguagliare l’abilità tecnica con cui la poetessa plasma e amalgama gli emistichi del modello, riuscendo, in certi casi, a dar vita a passi di vera poesia.
19 Secondo la Ricci 1977b, 117 il verbo tenere in questo contesto assume il significato di ‘durare’,
analogamente a Liu. XXIII 44,6 imber continens per noctem totam... tenuit. 20 Cfr. Palla 1983, 285. 21 Ricci 1977b, 105 n. 3.
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