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Incontri triestini di filologia classica 5 (2005-2006), 261-272 
ALESSIA FASSINA (e-mail:ale.fassina@libero.it)
Alterazioni semantiche ed espedienti compositivi nel Cento Probae 
Dell’intera produzione centonaria d’intonazione cristiana pervenutaci dall’antichità1 il 
cosiddetto Cento Probae rappresenta il più importante ed antico testimone, l’unico di cui si 
possa risalire con sicurezza all’autore. Nonostante autorevoli studiosi ne abbiano messo in 
discussione l’identità2, tutt’oggi l’ipotesi più accreditata attribuisce la genesi dell’opera a 
Faltonia Betitia Proba, un’esponente di spicco dell’illustre gens dei Petronii Probi, imparentatasi 
con gli Anicii attraverso il matrimonio di suo figlio Quinto Clodio Hermogeniano 
Olybrio con Tyrrania Anicia Iuliana3. 
‘Pagana’ nella forma, che rimanda sempre all’illustre modello virgiliano, ma cristiana 
nell’ispirazione e nell’afflato poetico, questa matrona romana nella seconda metà del IV sec. 
ridusse in poesia parti dell’Antico e del Nuovo Testamento servendosi esclusivamente dei 
versi del poeta mantovano, rivestendo, così, un ruolo fondamentale nel processo di cristianizzazione 
di Virgilio4, la cui legittimazione ideologica era già iniziata nell’età costantinia
1 Trattasi del Cento Probae, del De Verbi Incarnatione (AL 719 R2), dei Versus ad gratiam Domini 
(AL 719a R2) e del De Ecclesia (AL 16 R2), pubblicati da Karl Schenkl nel sedicesimo volume del 
Corpus Vindobonense (1888, 513-627), prima ed unica edizione della poesia centonaria cristiana. 
Questi testi, ad eccezione del solo Cento Probae, sono riportati anche in tutte le principali edizioni a 
stampa dell’Anthologia Latina all’infuori di quella del 1982 curata da Shackleton Bailey che, per spiegare 
la sua scelta di omettere la pubblicazione dei centoni, parla addirittura di opprobria litterarum. 
2 Danuta Shanzer 1986, 232-240; 1994, 75-96 ha ipotizzato che la reale autrice del centone non sia 
Faltonia Betitia Proba ma sua nipote Anicia Faltonia Proba in base ad alcune coincidenze verbali tra il 
testo ed il cosiddetto Carmen contra Paganos (AL 4 R2), e alla luce di varie incongruenze emerse, a 
suo giudizio, dal confronto fra le varie adscriptiones presenti nei manoscritti medievali riportanti il 
testo. La sua tesi è stata smentita sia da Green 1995, 552, che da Matthews 1992, 285, che, prendendo 
in considerazione i diversi problemi prosopografici e di tradizione manoscritta legati al centone, hanno 
dimostrato la genuinità di tutte le informazioni riportate dai codici. 
3 La poetessa era figlia di Petronio Probiano (console nel 322 con Anicio Giuliano, PVR nel 32931) 
e forse di Demetriade (Hier. epist. 130,3 qui Demetriadis proauiae nobilitatem insigniorem reddidit 
Demetriadis filiae perpetua castitate); dal marito Clodio Celsino Adelfio (presumibilmente correttore 
di Apulia e Calabria prima del 333, forse proconsole di una provincia a noi non nota prima del 
351; PVR nel 351) ebbe due figli, Quinto Clodio Hermogeniano Olybrio (prefetto del pretorio 
d’Oriente nel 378; console nel 379) e Faltonio Probo Alypio (PVR nel 391): cfr. PLRE I 732. 
4 Sul tentativo di cristianizzazione delle opere di Virgilio, in particolare della quarta ecloga, cfr. 
Schmid 1953; Courcelle 1957; Monteleone 1975; Fontaine 1978. 
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na in Oriente con la traduzione della IV ecloga curata dallo stesso imperatore, in Occidente 
con la conuersio epica delle Scritture attuata negli Euangeliorum libri quattuor dallo spagnolo 
Giovenco. 
L’importanza del cento Probae nell’ambito della poesia del IV sec. risiede infatti nella 
voluta interconnessione che la poetessa riuscì a creare tra i pia munera Christi, come vengono 
definite al v. 23 le verità di fede, e la grande tradizione classica incarnata dalla lingua virgiliana. 
Sottesa alla continua ripetizione di formule del modello si celava una precisa strategia 
culturale volta a creare, attraverso la risemantizzazione del modello, una lingua epica cristiana 
che potesse diventare il veicolo della nuova realtà spirituale; pertanto lo scopo del-
l’opera risiedeva nel duplice obiettivo di trasmettere la parola divina ad un’élite cristiana 
imbevuta di letteratura profana5 e di suggerire, al contempo, una rilettura cristiana delle 
opere virgiliane, il cui latente valore spirituale sembrava emergere proprio attraverso il loro 
impiego nel nuovo contesto sacro. 
A questo proposito, risulta interessante mettere concretamente in luce come Proba riesca 
a conciliare la lingua di Virgilio con le esigenze della nuova fede, facendo assumere ai termini 
del modello, nati da un’ispirazione completamente diversa, un valore semantico nuovo, in 
modo da riuscire ad imporre il messaggio cristiano sulla lingua virgiliana, che tuttavia non si 
riduce in pure e semplici clausole ‘musicali’, ma conserva il suo carattere allusivo, a tal punto 
che gli sforzi impiegati per la riorganizzazione e il riuso dei membra disiecta del modello nel 
nuovo contesto consentono di poter parlare, dell’«existence d’un accord latent entre le deux 
théologies, paienne et chrétienne»6, come nel caso degli autori di parafrasi bibliche. 
5 All’inizio il messaggio cristiano venne accolto dai ceti più bassi della popolazione e affidato a 
semplici traduzioni dei testi biblici dal greco, aderentissimi agli originali, ma troppo spesso farciti di 
vistosi errori morfologici e sintattici. Quando la nuova religione si diffuse nelle classi più alte, questi 
umili testi diventarono un ostacolo per la diffusione del credo, come ci testimonia lo stesso Lattanzio: 
inst. V 1,15 haec in primis causa est cur apud sapientes et doctos et principes huius speculi scriptura 
sancta fide careat, quod prophetae communi ac simplici sermone ut ad populum sunt locuti. Uomini 
colti educati nelle scuole di retorica, abituati a leggere autori come Plauto, Terenzio e Cicerone, mal 
sopportavano di accostarsi alle Scritture su testi così scorretti: basti ricordare l’atteggiamento del giovane 
Girolamo che, dopo aver letto Plauto, non riusciva a dedicarsi alla lettura dei profeti ebrei (epist. 
22,30), ed il caso del difficile approccio alle Scritture dello stesso Agostino, troppo imbevuto 
dell’Hortensius ciceroniano. Si cercò di provvedere a questa povertà dell’eloquio cristiano con molteplici 
soluzioni: a partire dagli anni sessanta del IV sec. si diede inizio ad una vera e propria attività esegetica 
sistematica che comportò uno stretto contatto con la tradizione di matrice greca: Ilario di Poitiers 
con il suo In Matthaeum ed il Tractatus super Psalmos fu il precursore della grande fioritura dell’esegesi 
latina che durerà un cinquantennio, e che vedrà in Ambrogio, Girolamo e Agostino i suoi massimi 
rappresentanti. 
6 Mora-Lebrun 1994, 76. 
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ALTERAZIONI SEMANTICHE ED ESPEDIENTI COMPOSITIVI NEL CENTO PROBAE 
Paradigmatici in questo senso sono i vv. 346-349 in cui la descrizione del mistero dell’incarnazione 
di Cristo sembra sostenere la posizione ufficiale della Chiesa che nel concilio di 
Nicea aveva sancito definitivamente il dogma sull’unità inscindibile di Dio, Uno e Trino: 
Iamque aderat promissa dies, quo tempore primum 
extulit os sacrum diuinae stirpis origo 
missus in imperium, uenitque in corpore uirtus 
mixta deo: subiit cari genitoris imago. 
A brevissima distanza dal proemio al mezzo dell’opera, in cui invoca nuovamente l’assistenza 
divina prima d’intraprendere la narrazione delle vicende del Nuovo Testamento, l’autrice 
descrive al v. 346 l’avvicinarsi del giorno della nascita di Cristo attraverso la fusione 
intorno a cesura eftemimere di Aen. IX 107 Ergo aderat promissa dies [et tempora Parcae] 
(trattasi dello scioglimento della promessa di Giove a Cibele di trasformare in Nereidi le navi 
di Enea) e di georg. I 61 [imposuit natura locis,] quo tempore primum (riferito al momento in 
cui Deucalione creò i primi uomini), mutuando iamque in incipit di verso da Aen. XII 391 
iamque aderat [Phoebo ante alios dilectus Iapyx] (il medico Iapige giunge al capezzale di 
Enea), in quanto luogo affine ad Aen. IX 107 in virtù della voce comune aderat7 . 
In quest’occasione viene ‘coniato’ un nuovo significato per l’espressione virgiliana promissa 
dies, che arriva a designare l’avvento di Cristo, come dimostra l’uso che ne fa alcuni anni 
dopo Prudenzio nella sua Apotheosis in difesa della Trinità, quando ai vv. 601-604 richiama un 
passo di Isaia in cui si profetizza la nascita virginale di Gesù (7,14 ecce uirgo concipiet et pariet 
filium et uocabitis nomen eius Emmanuel), servendosi della medesima formula8: 
Aduenit promissa dies, quam dixerat iste 
affore uersiculus, cum uirgo puerpera teste 
haud dubie sponso, pacti cui cura pudoris, 
edidit Emmanuelque meum me cernere fecit. 
7 Fu Rosa Lamacchia 1958, 212 ad evidenziare per la prima volta, a proposito della Medea di 
Hosidio Geta, l’utilizzo dell’espediente compositivo della sutura intorno ad una uox communis, osservando 
che spesso l’autore «unisce insieme due emistichi che hanno la parola d’attacco in comune: 
quasi che questo gli desse maggior garanzia per l’unione delle formule fra loro». La questione venne 
affrontata dalla studiosa anche nella prefazione della sua edizione critica della Medea (1981, VI): «centonarius… 
haud raro singula membra aliquo ipsorum communi uerbo tamquam articulo connexuit, quo 
artificio fretus emendatiores elegantioresue uersus se consarcinauisse arbitratus est». In seguito 
Maddalena Vallozza 1984, 309-342 ha cercato di mettere in luce la presenza di questo fenomeno anche 
in tutti gli altri centoni tràditi dal codex Salmasianus, mentre Paola Paolucci, per analogia col fenomeno 
della uox communis, ha coniato nella sua edizione del centone Hippodamia (2006, LXXIII) la definizione 
di «sutura innescata da vox propinqua» per l’espediente compositivo presente in quegli emistichi 
«che condividono non tanto la parola coinvolta dalla sutura bensì una parola vicino ad essa». 
8 Sulle posizioni teologiche anti-ariane sostenute da Prudenzio nell’Aphoteosis, cfr. Garuti 2005; 
Micaelli 1984. 
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Il v. 347 presenta un procedimento combinatorio del tutto analogo al precedente: l’immagine 
del volto di Cristo in incipit di verso coincide con quella della stella Lucifero in Aen. 
VIII 591 extulit os sacrum [caelo tenebrasque resoluit], mentre l’espressione diuinae stirpis 
origo dipende da Aen. XII 166 [hinc pater Aeneas,] Romanae stirpis origo, dove il termine 
Romanae viene sostituito da diuinae, mutuato da Aen. V711 [est tibi Dardanius] diuinae 
stirpis Acestes in virtù del termine comune stirpis. 
Una notevole capacità creativa permette, inoltre, a Proba di condensare la sua ortodossia 
cristologica nei soli vv. 348-349, dal punto di vista teologico i più importanti di tutta l’opera, 
che, come ha evidenziato la Cacioli, «vanno esaminati insieme, perché esprimono uno 
stesso concetto: e cioè l’umanarsi di Cristo, figlio di Dio»9. 
Al v. 348 l’ascesa al trono di Roma di Numa Pompilio di Aen. VI 812 (missus in imperium 
[magnum. quoi deinde subibit]) si fonde intorno a cesura pentemimere con la descrizione 
del valore e della bellezza di Eurialo di Aen. V 344 ([gratior et pulchro] ueniens in corpore 
uirtus), con variazione di ueniens in uenitque suggerita dal nuovo contesto), mentre il 
v. 349, legato in enjambement col precedente, sutura il momento del concepimento di 
Aventino da parte della vestale Rea di Aen. VII 661 (mixta deo [mulier, postquam Laurentia 
uictor]) con la descrizione che Enea fa del padre Anchise in Aen. II 560 ([obstipui;] subiit 
cari genitoris imago). 
Diversi sono i mutamenti semantici operati sul modello: mentre nel passo virgiliano per 
uirtus s’intendeva il valore militare di Eurialo, in chiave cristiana il termine arriva ad includere 
in sé le prerogative della uis divina; nel centone la uirtus mixta deo indica, pertanto, «la 
potenza mista alla divinità, che si sprigiona, cioè, da Dio»10, un concetto già espresso nei 
Vangeli dove Cristo è detto testualmente sedentem ad dexteram uirtutis (Matt. 26,64); analogamente 
il termine imago non si riferisce ad un ricordo della memoria11 come è l’immagine 
del vecchio padre Anchise per Enea, bensì a Cristo, immagine sostanziale del Padre. 
Il concetto dell’umanarsi di Cristo, figlio di Dio, è, dunque, totalmente racchiuso nell’espressione 
uirtus mixta deo, ovvero nella potenza che si sprigiona da Dio al momento dell’incarnazione 
del suo Verbo in corpo umano, mentre il suo essere immagine sostanziale del 
Padre viene estrinsecato attraverso la definizione di cari genitoris imago, che equivale ad 
imago Dei, espressione già presente nelle Scritture, nella seconda lettera di San Paolo ai 
Corinzi (Cor. 2,4 ut non fulgeat inluminatio euangelii gloriae Christi, qui est imago Dei)e 
in quella ai Filippesi (Phil. 2,6 qui [sc. Christus] cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus 
est esse se aequalem Deo), ed è ampiamente attestata negli autori cristiani, sempre in 
riferimento alla natura di Cristo, specie in opere antiariane: Prud. apoth. 309 Christus forma 
9 Cacioli 1969, 221-222. 
10 Cacioli 1969, 222. 
11 Cfr. ThLL VII 409, 24ss. 

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ALTERAZIONI SEMANTICHE ED ESPEDIENTI COMPOSITIVI NEL CENTO PROBAE 
patris, nos Christi forma et imago; Novatian. trin. 18,947B Sic ergo et Christus, id est imago 
Dei et filius Dei, ab hominibus inspicitur, qua poterat uideri; Mar. Victorin. adu. Arium I 19 
Quod Christus de Deo, non ex his quae non sunt: ut non splenderet illis inluminatio euangelii 
gloriae Christi qui est imago Dei. Si imago Dei Christus, de Deo Christus. Imago enim 
imaginalis imago; imaginalis autem Deus, imago ergo Christus; in Eph. I4 Namque filius 
Christus et uere filius Christus, et uere filius, sicuti saepe docui, cum imago Dei est; Ambr. 
in psalm. XXXVIII 24,1 In qua ergo imagine ambulat homo? In ea utique ambulat ad cuius 
similitudinem factus est, id est ad imaginem Dei; imago autem Dei Christus, qui est splendor 
gloriae et imago substantiae eius; in Luc. X 49 solus enim Christus est plena imago Dei 
propter expressam in se paternae claritudinis unitatem; c. Aux. 32 Sed in ecclesia unam imaginem 
noui hoc est imaginem Dei inuisibilis de qua dixit Deus: Faciamus hominem ad imaginem 
et similitudinem nostram; illam imaginem de qua scriptum est quia Christus splendor 
gloriae et imago substantiae eius. 
Già nei versi iniziali del centone, nella praefatio operis, Proba aveva posto l’accento sul 
mistero trinitario, chiamando in causa, di volta in volta, le tre Persone di Dio. 
Esplicito l’accenno allo Spirito Santo ‘settiforme’ ai vv. 9-12 
nunc, deus omnipotens, sacrum, precor, accipe carmen 
aeternique tui septemplicis ora resolue 
spiritus atque mei resera penetralia cordis 
dove l’aggettivo septemplex12 presenta uno slittamento semantico in chiave teologica analogo 
a Ps.Tert. adu. Marc. IV 128 In cuius tenebris septemplex spiritus unus, basato su un 
passo del profeta Isaia (11,2 ) in cui si enumerano i diversi modi in cui si manifesta lo Spirito 
Santo al fedele. 
Ai vv. 29-32 
O pater, o hominum rerumque aeterna potestas, 
da facilem cursum atque animis illabere nostris, 
tuque ades inceptumque una decurre laborem, 
nate, patris summi uigor et caelestis origo 
12 Questo aggettivo, derivato da septem e plico e significante septies duplicatus, septem plicaturas 
habens (Forcell. IV 320 s.v.), ricorre per la prima volta in Aen. XII 925 loricae et clipei extremos septemplicis 
orbis in riferimento allo scudo di Turno composto da sette pelli di bue sovrapposte (poi in 
Ou. am. I7 Quid? non et clipei dominus septemplicis Aiax; met. XIII 2 surgit ad hos clipei dominus 
septemplicis Aiax; Homer. 293 texisset lorica uiri septemplice tergo; 612 ingentem clipeo septemplice 
reppulit ictum; Stat. Theb. VII 310 Hypsea quadriiugos, clipei septemplice tauro; Val. Fl. VI 367 ille 
iterum in clipei septemplicis improbus orbem). Il modello è senza dubbio Hom. Il. VI 220-22 che chiama 
eJptaboveion savko" lo scudo di Aiace, sebbene il termine greco, contenendo in sé l’elemento linguistico 
relativo alle pelli bovine, non corrisponde esattamente all’aggettivo latino che risulta essere 
più astratto. 
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vengono, invece, distinte nettamente la persona del Padre, di cui si sottolinea al v. 29 la 
potentia attraverso un verso dell’obsecratio di Venere a Giove (Aen. X 18), da quella del 
Figlio, la cui natura divina, esplicitata al v. 32 attraverso la sutura della preghiera di Venere 
a Cupido di Aen. I 665 e di un esametro della cosmogonia di Anchise (Aen. VI 730), sembra 
risultare più chiara se non si accetta la punteggiatura adottata nel Corpus Vindobonense da 
Schenkl sulla scorta del modello virgiliano13, e si pone una virgola non dopo nate ma dopo 
summi14: Cristo viene così definito nate patris summi ‘Figlio del Sommo Padre’ e caelestis 
origo per sottolinearne la natura divina, quindi uigor, termine con cui Proba evoca Cristo 
nella sua raffigurazione di Logos come forza creativa di Dio, ribadendo il principio evangelico 
secondo cui il Padre crea tutte le cose attraverso il Figlio: Ioh. 1,3 omnia per ipsum [sc. 
Verbum] facta sunt, et sine ipso factum est nihil, quod factum est. 
Analogamente Mario Vittorino negli stessi anni aveva difeso l’umanità e la divinità di 
Cristo contro l’Arianesimo introducendo la medesima distinzione tra potentia e actio per 
caratterizzare le figure del Padre e del Figlio (adu. Arium. I 19 e II 3): 
Et quare imago Dei lovgo"? Quoniam deus in occulto, in potentia enim; lovgo" autem 
in manifesto, actio enim. Quae actio, habens omnia quae sunt in potentia, uita et 
cognoscentia, secundum motum producit, et manifesta omnia. Propter quod omnium 
quae sunt in potentia imago est actio, unicuique eorum quae in potentia sunt speciem 
perficiens, et exsistens per semet: a nihilo enim nulla substantia. […] Secundum 
autem quod est potentia et actione, potentia Pater, actione Filius. 
Ergo et Pater in Filio et Filius in patre, sed utrumque in singulis, et idcirco unum; duo 
autem, quia quo magis est id alterum apparet; magis autem Pater potentia et actio 
Filius, et idcirco alter, quia magis actio; magis enim actio, quia foris actio. 
13 Come già sottolineato dalla Cacioli 1969, 191, il verso presenta un problema interpretativo 
legato «all’evidente forzatura brachilogica» causata dal vocativo nate che perde il suo valore affettivo 
passando dalla bocca di Venere a quella dell’autrice. Brugnoli 1987, 218-19 non accoglie l’interpunzione 
dopo nate proposta da Schenkl, ma suggerisce di ripristinare la lezione del verso già accolta 
nell’edizione di Proba nella Collectio omnium poetarum (Pisauri 1766), e riprodotta anche in PL 
XIX 803-18, che pone l’interpunzione del verso all’altezza della cesura tra l’hemiepes e l’enoplio, 
portando, così, all’eliminazione della brachilogia. Secondo lo studioso, intendendo uigor ed origo in 
endiadi e caelestis in enallage si avrebbe un’espressione di maggior rigore teologico, che troverebbe 
appoggio anche al v. 347 dove Cristo è detto diuinae stirpis origo. 
14 Il fatto che Ausonio riprenda alla lettera l’emistichio del centone in ephem. 3,27-30 Nate patris 
summi nostroque salutifer aeuo / uirtutes patrias genitor cui tradidit omnes, / nil ex inuidia retinens plenusque 
datorum, / pande uiam precibus patriasque haec perfer ad aures dimostra che il verso va punteggiato 
e inteso in questo modo e conferma anche che, al momento di comporre l’Oratio, il poeta conosceva 
il poemetto; in alternativa si dovrebbe pensare che abbia reinterpretato allo stesso modo, ma indipendentemente 
da Proba, la sintassi di Aen. I 665: coincidenza non impossibile ma piuttosto improbabile. 
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ALTERAZIONI SEMANTICHE ED ESPEDIENTI COMPOSITIVI NEL CENTO PROBAE 
Se l’analisi di questi versi ha permesso di rendere più chiari alcuni aspetti della dottrina 
trinitaria di Proba, per evidenziare ancor meglio la sua abilità nel riuscire a fondere assieme, 
tra le possibili tessere virgiliane, quelle che meglio si adattavano a creare un testo ideologicamente 
‘nuovo’ è utile istituire un confronto tra la sua tecnica compositiva15 e quella di un 
altro centonarius nella resa del medesimo episodio biblico. 
15 Nell’epistola proemiale al suo Cento Nuptialis, indirizzata ad Assio Paolo, Ausonio elenca le 
regole tecniche alla base della realizzazione di un centone: Et si pateris ut doceam docendum ipse, 
cento quid sit absoluam. uariis de locis sensibusque quaedam carminis structura solidatur, in unum 
uersum ut coeant aut caesi duo aut unus <et unus> sequenti cum medio, nam duos iunctim locare ineptum 
est et tres una serie merae nugae. Diffinduntur autem per caesuras omnes, quas recipit uersus 
heroicus, conuenire ut possit aut penthemimeris cum reliquo anapaestico aut trochaice cum posteriore 
segmento aut septem semipedes cum anapaestico chorico aut *** post dactylum atque semipedem 
quidquid restat hexametro… (160,24-32 Prete). 
Il cento Probae può considerarsi un buon esempio di tecnica centonaria dal momento che solo in 
pochissimi casi la sua autrice contravviene ai rigidi dettami ausoniani: bassissima è infatti la percentuale 
di reimpiego di due versi consecutivi del modello (vv. 40-41 = Aen. VI 728-29; 73-74 = georg. I 35251; 
84-85 = ecl. VI 35-36; 215-216 = Aen. X 572-73; 411-412 = georg. I 41-42; 485-486 = Aen. VI 55758; 
533-34 = georg. I 141-42); limitato il ricorso a versi paruis ex frustulis consociati: v. 36 Musaeum 
ante omnes (Aen. VI 66) uestrum cecinisse (ecl. X 70) per orbem (ecl. VIII 9; georg. I 505; Aen. I 457; 
I 602; X 783; XI 257; XI 694); v. 129 eripuit (Aen. V 464; VI 342; VII 119; XII 539) subitoque (Aen. 
VIII 637; XII 421) oritur mirabile donum (Aen. II 680 + I 652); v. 371 corpora natorum (Aen. II 214; 
VI 22) sternuntur (Aen. II 364) limine primo (Aen. VI 427); v. 564 matres atque uri (georg. IV 475; Aen. 
VI 306), pueri (georg. IV 476; Aen. VI 307) uelamina nota (Aen. VI 221); v. 588 edocet (Aen. X 152) 
immiscetque preces (Aen. X 153) ac talia fatur (Aen. III 485; al.); v. 609 exposcunt (Aen. IX 193) farique 
iubent (Aen. XI 240), quo sanguine cretus (Aen. II 74; III 608); v. 651 cum subito (Aen. I 509; I 535; 
III 590 ) ante oculos (Aen. I 114) ingenti mole sepulchrum (Aen. VI 232). Pochissime le infrazioni apportate 
ai versi virgiliani, che si risolvono in semplici trasformazioni di un caso o di una concordanza, mutamenti 
di modo o tempo o persona verbale, sostituzione, trasposizione o soppressione di un vocabolo; 
dodici i uerba omissa (v. 115 uix; haec; 205. -que; 286 -que; 315 fateor; nauis; 318 -que; 456 pauidam; 
479 est; 489 primum; 490 duro; 602 -que); quattro gli addita (v. 115 talia; 157 pater; 205 atque; 609 que); 
solo sei volte si ricorre a uerba traslata (v. 106 liquidi gregibus . 
gregibus liquidi; 205 subitaque 
animum . 
animum subita; 265 nescis heu perdita . 
heu perdita nescis; 368 magnisque . 
et magnis; 
586 fruges manibus . 
manibus fruges; 602 patribus populoque . 
populo patribus). Viceversa la fluidità 
del testo è garantita dalla totale mancanza di aggiunte originali o di autori diversi da Virgilio e dal-
l’alto numero di uoces communes (v. 27 quantum; 30 atque; 57 lunae/-am; 114 iuuat; 126 noctis; 128 
compagibus; 129 mirabile; 131 facie/-es; 155 nec; 161 ubi; 163 hic; uer 170 si; 174 uolumina; 182 dictis; 
199 -que; dapes; 210 hominum; 214 numine; 220 cum; auris; 221 -que; per; 223 dictis; ultro; 240 
morte; 243 qua/quod; 267 morere; 297 et; 307 alto; 323 et; 328 quibus; 338 caeli/caelo; 346 aderat; 347 
stirpis; 357 clamore; 358 acuunt; iras; 383 populosque; 404 decus; 405 accipe; 445 si modo; 
quem/quod; 446 pectore; 454 et; 476 hinc; 505 super; 528 dixerat; 551 clamore; 605 magno clamore; 
614 cunctique/cunctisque; 630 et; 639 corde; 648 medio/media; 654 compagibus; 665 uri; 681 et). 
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A questo proposito interessante è il paragone tra i suoi versi dedicati agli inizi della 
Creazione e quelli del centone intitolato Versus ad gratiam Domini (AL 719a R2)16: 
Proba, cento 56-61 AL 719a 88-94 R2 
Principio caelum ac terras camposque liquentes Nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra 
lucentemque globum lunae solisque labores siderea polus, et nox obscura tenebat. 
ipse pater statuit, uos, o clarissima mundi 90 Tum pater omnipotens, rebus iam luce retectis, 
lumina, labentem caelo quae ducitis annum. aera dimouit tenebrosum et dispulit umbras. 
60 nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aether, Principio caelum et terras solemque cadentem 
set nox atra polum bigis subuecta tenebat, lucentemque globum lunae camposque liquentes, 
noctis iter, stellis numeros et nomina fecit, 
Entrambi gli autori pongono l’accento su una questione ancora piuttosto dibattuta nella 
seconda metà del IV secolo, la cosiddetta creatio ex nihilo17: la collocazione incipitaria del-
l’avverbio principio, rispettivamente al v. 56 e al v. 92, suggerisce in maniera inequivocabile 
che l’intero universo s’innesta nel processo creativo ex nihilo, cioè in quell’‘attimo atemporale’ 
che è il ‘principio’ di ogni entità creata, compreso il tempo. Ambedue puntualizzano, 
inoltre, che è l’atto divino (statuit; fecit) che fa scaturire tutto l’universo, e nulla vi era prima 
se non il buio primordiale, ma, pur attingendo quasi sempre ai medesimi luoghi virgiliani, 
dimostrano la propria originalità nel modo in cui scelgono di fondere insieme i diversi passi 
del modello. 
Se si confrontano, ad esempio, Proba 56-57 e AL 719a 92-93 R2 si può notare che la poetessa 
per evidenziare che è l’azione creatrice di Dio che dà origine al mondo intero inizial
16 Tràdito dal solo Vat. Pal. Lat. 1753 immediatamente dopo il cento Probae, questo poemetto di 132 
esametri, lacunoso della fine, viene tradizionalmente considerato insieme al De mortibus boum di 
Endelechio il primo esempio di bucolica cristiana. Fu Bursian 1878, 29-37, primo editore del testo, ad 
ipotizzare la sua identificazione nel Tityrus di Pomponius citato da Isidoro in orig. I 39,26 Sic quoque et 
quidam Pomponius ex eodem poeta inter cetera stili sui otia Tityrum in Christi honorem conposuit: similiter 
et de Aeneidos. Si sono occupati di questo testo sotto diversi aspetti Schmid 1953, 155, che propone 
come datazione del centone il V sec.; Ricci 1977a, 495-96; 1977b, 105-21; Vidal 1983; McGill 2001. 
17 La concezione della creatio ex nihilo fu il risultato dello scontro tra la dottrina cosmogonica cristiana 
e il dualismo gnostico. Sebbene si trovasse espressa solo in Mach. II 7,28 e non fosse esposta 
letteralmente in Gen. I 1, i Padri della Chiesa ritennero che fosse deducibile dalla logica stessa del 
discorso biblico, e posero le fondamenta di questa concezione minimizzando il riferimento al caos esistente 
prima della creazione, in quanto il rifiuto dello gnosticismo esigeva che si togliesse alla materia 
la sua preesistenza dualistica e che la si includesse nell’unità della creazione dal nulla. Ritennero che 
il concetto della creatio ex nihilo non significasse che il nulla era l’elemento base da cui Dio ha formato 
il mondo, ma indicasse l’assenza di qualsiasi concausa extradivina, in quanto l’ordine universale 
era attribuibile esclusivamente all’onnipotenza della divina volontà d’amore. Di conseguenza valorizzavano 
non ciò che preesisteva all’azione divina, ma il fatto che la forma della creazione non sarebbe 
stata determinata da nient’altro che dall’opera pienamente libera di Dio. 
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ALTERAZIONI SEMANTICHE ED ESPEDIENTI COMPOSITIVI NEL CENTO PROBAE 
mente seleziona due versi della cosmogonia di Anchise (Aen. VI 724-25 Principio caelum ac 
terras camposque liquentis / lucentemque globum lunae [Titaniaque astra]), quindi riprende 
la perifrasi solisque labores da Aen. I 742 [Hic canit errantem lunam] solisque labores, 
ovvero da uno dei temi cantati da Iopa durante il banchetto offerto da Didone, scelta molto 
felice in quanto il passo sul piano contenutistico risulta essere, anch’esso, in piccolo, una 
cosmogonia; la tecnica compositiva si rivela impeccabile dal momento che, dopo aver riprodotto 
fino alla cesura eftemimere del v. 57 un verso e mezzo del modello, cerca di ovviare 
alla sensazione di frammentarietà del testo realizzando la sutura dei due emistichi lucentemque 
globum lunae e lunam solisque labores attraverso la voce comune luna. 
L’autore di AL 719a, invece, per ribadire il concetto della creatio ex nihilo, pur trovando 
ovvio attingere al medesimo passo del libro VI dell’Eneide, ricorre ad un diverso espediente 
compositivo: divide in due emistichi Aen. VI 724, quindi disloca il secondo colon camposque 
liquentes al v. 93, ottenendo così un ordine degli elementi invertito rispetto a Proba; fa poi 
dipendere l’accenno al sole da un passo dell’Eneide meno evocativo di quello desunto dal 
canto di Iopa, e cioè dalla collocazione geografica dell’Etiopia di Aen. IV 480 Oceani finem 
iuxta solemque cadentem. 
Se si raffrontano Proba 60-61 e AL 719a 88-89 R2 emerge la maggior abilità compositiva 
della poetessa che attinge a due passi dell’Eneide che descrivono notti particolarmente 
cupe, gravide di tensione, vale a dire Aen. III 585 nam neque erant astrorum ignes nec lucidus 
aethra (cielo notturno sopra l’Etna in eruzione) ed Aen. V 721 et Nox atra polum bigis 
subuecta tenebat (è la notte in cui Enea è preso dall’inquietudine, perché incerto se restare 
in Sicilia o raggiungere le sponde dell’Italia) dove modifica aethra in aether e set in et come 
richiesto dalla sintassi del nuovo contesto; nei Versus ad gratiam Domini entrambi gli esametri 
vengono, invece, desunti dallo stesso passo del libro III assunto da Proba limitatamente 
al v. 60: Aen. III 585-587 
nam neque erant astrorum ignes nec lucidus aethra 
siderea polus, obscuro sed nubila caelo, 
et lunam in nimbo nox intempesta tenebat 
Infatti, a dispetto dell’opinione che vorrebbe suturato nel secondo emistichio di v. 89 
Aen. IV 461 uisa uiri, nox cum terras obscura teneret (ma a prezzo di ben due uerba omissa, 
cioè cum e terras, e di un cambiamento di modo verbale)18, è verisimile che il centonarius, 
dopo aver fatto ricorso ad un verso e mezzo del modello, richiami Aen. III 587, sostituendo 
intempesta con obscura, derivato da obscuro… caelo del verso precedente. Il v. 89 
rimane, comunque, un esempio piuttosto esaustivo della scarsa chiarezza compositiva tradizionalmente 
imputata a questo centone: il riutilizzo del modello virgiliano si dimostra poco 
18 Così per Schenkl 1888, 613; Ricci 1977b, 117; Palla 1983, 285. 
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felice sotto il profilo sintattico, implicando la creazione di un evidente caso di ellissi dell’oggetto 
con un conseguente adattamento del verbo tenere in senso intransitivo19. Gli aggiustamenti 
operati sul testo virgiliano comportano, inoltre, un allungamento di sillaba finale breve 
in arsi (dovendosi leggere pOlUs), causato dalla giustapposizione di due emistichi non complementari 
per difetto20. 
Crediamo che questo breve confronto tra le diverse tecniche compositive adottate nei due 
centoni sia sufficiente a far emergere «il tentativo piuttosto rozzo di emulazione nei confronti 
di Proba»21 operato dall’autore dei Versus ad gratiam Domini, che non sembra essere in 
grado di eguagliare l’abilità tecnica con cui la poetessa plasma e amalgama gli emistichi del 
modello, riuscendo, in certi casi, a dar vita a passi di vera poesia. 
19 Secondo la Ricci 1977b, 117 il verbo tenere in questo contesto assume il significato di ‘durare’, 
analogamente a Liu. XXIII 44,6 imber continens per noctem totam... tenuit. 
20 Cfr. Palla 1983, 285. 
21 Ricci 1977b, 105 n. 3. 
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ALTERAZIONI SEMANTICHE ED ESPEDIENTI COMPOSITIVI NEL CENTO PROBAE 
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